Gli itinerari

SULLE ORME DEI PASTORI
Itinerari
cicloturistici in Toscana sulle antiche vie della transumanza
La Via dei Biozzi
La Via del Mallogo
La Via Meastra dei Vergai
La Via del Mugello
La Via Pistoiese
La Via della Garfagnana

A SVERNAR NEL LAZIO
Itinerari cicloturistici tra Marche, Umbria e Lazio sulle antiche vie della transumanza
Dal Montefeltro alla Maremma
La Via di Orvieto
Tra i Monti della Tolfa e la Tuscia
La Via della Spina
La Via di Sant’Angelo
Dai Sibillini alla Campagna romana
La Via di Cardito
La Via dell’Aniene
La Via di Arcinazzo
Le vie dei Lepini
Da Filettino a Ninfa
dagli Ernici al Circeo
Dalla Marsica alla Valle dell’Amaseno
Dai Monti della Meta alla Piana d’Itri

Introduzione ai singoli itinerari

a) SULLE ORME DEI PASTORI

La Via dei Biozzi. Tra i più grandi proprietari terrieri e di bestiame dell’Alta Valtiberina figuravano – fin dal Basso Medioevo – i Biozzi, famiglia i cui possedimenti si estendevano anche nella zona di Bagno di Romagna e in Maremma. Per secoli le greggi dei Biozzi hanno praticato la transumanza, e le dimensioni di questa “carovana” erano tali che ben presto si venne a codificare un vero e proprio itinerario dei Biozzi.  Al momento della partenza, pastori e pecore (ma anche bovini, cavalli e muli) si radunavano nella fattoria di Viamaggio, piccola frazione a pochi chilometri da Badia Tedalda. Per l’occasione vi giungevano anche le pecore che d’estate pascolavano nei poderi di Bagno di Romagna: percorrevano una mulattiera che risaliva la valle del Savio fino a Montecoronaro e poi – passando per Poggio tre Vescovi – scendevano a Pratieghi per approdare a Viamaggio.  Alla fattoria di Viamaggio, dunque, si svolgeva il rito della partenza: caricate le masserizie sul barroccio, benedetti gli animali e bevuto un ultimo bicchiere di vino nella vicina Osteria “dell’Isolina”, il vergaio –  col bastone di avellano nuovo – dava il segnale. Ci si avviava così per il “sentiero dei Biozzi”, scendendo al Tevere e proseguendo poi per la Maremma lungo un itinerario che passava per Ponte alla Piera, Arezzo, Ciggiano, Serre di Rapolano, Montalcino, S. Giovanni d’Asso e Cinigiano. In coda all’immenso gregge c’erano anche i montanari che andavano a “far stagione” in Maremma: falegnami, maniscalchi, fabbri, carbonai, braccianti che approfittavano per fare il viaggio in compagnia, e diminuire i rischi: Il trasferimento dalla fine del XVIII secolo si faceva in 7 – 8 giorni, per arrivare ai pascoli invernali che i Biozzi possedevano nella zona del Parco dell’Uccellina.  

La Via del Mallogo. Il Casentino è stato da sempre una delle aree appenniniche più importanti per l’allevamento del bestiame e la pratica della transumanza. Non a caso, al di là dei numeri, le implicazioni socio-culturali e finanche artistiche che, direttamente o indirettamente, si ricollegano alla transumanza, proprio nel Casentino risultano essere particolarmente ricche e profonde.  Un solo esempio: i versi e le canzoni nate in questo ambito agro-silvo-pastorale: alcune di esse – risalenti addirittura al Cinquecento – sono giunte fino ai giorni nostri e sono ancora conosciute dalla gente del posto. La particolare morfologia del Casentino da un lato consentiva – grazie a valichi non elevati – anche alle greggi che in estate stazionavano sui versanti romagnoli di avvalersi dei pascoli della Maremma; dall’altro delineava invece la necessità di definire diversi punti di concentrazione delle greggi in vista della partenza per la transumanza. Così, contrariamente che per la “Via dei Biozzi”, i punti di partenza in quest’area sono più d’uno, dislocati in base alle vallate e ai valichi meno impegnativi. In questa prospettiva, tra le possibilità di partenza dal Casentino centro-orientale (e confluenti a Bibbiena) descriviamo quella percorsa dalle greggi di proprietà dei monaci camaldolesi, che in Maremma andavano a svernare dalle parti di Magliano. Come nel caso dei Biozzi, si trattava di migliaia di capi di bestiame (soprattutto pecore, ma anche bovini ed equini). A cui per il viaggio si aggregavano quelle dei proprietari più piccoli delle vallate vicine. Altre due importanti vie percorse dai pastori di questa area del Casentino erano: 1) Capo d’Arno / Strada Dogana di Bocca Pecorina / Porciano / Stia / Bibbiena; 2) Croce della Calla / Convento della Verna / Chiusi della Verna / Chitignano / Rassina / Bibbiena.  Una volta giunti a Bibbiena, tutti seguivano poi il medesimo itinerario fino alle principali “porte di accesso” alla Maremma, per dividersi di nuovo – da lì in avanti – a seconda delle località precise in cui le greggi si fermavano per svernare. Quelle dei monaci di Camaldoli arrivavano a stazionare nella tenuta della Marsiliana.

La Via Maestra dei Vergai. Il giogo del Falterona ha rappresentato fin da età remote un punto di incrocio di diversi percorsi transappenninici. Ne offrono testimonianza, tra l’altro, i reperti ritrovati nel Lago degli Idoli, piccolo avvallamento a mezza costa sul versante meridionale del Falterona, vicino alle sorgenti dell’Arno. Alla metà del XIX secolo ha restituito quello che a tutt’oggi è da considerarsi il più importante complesso votivo dell’Italia centro-settentrionale: centinaia di statuette, pezzi di rame e bronzo, punte di frecce, ecc. L’analisi di tali reperti fa pensare che gli antichi frequentatori attribuivano alle acque del lago proprietà terapeutiche, ma – soprattutto – che consideravano questo territorio alpestre importante anche dal punto di vista economico. Con ogni probabilità era sia una zona di pascoli estivi (tra i reperti votivi, molte le raffigurazioni di pecore e capre), sia un importante punto di transito.  Che l’economia delle popolazioni di questi monti si sia basata in misura significativa sull’allevamento del bestiame, dunque, è un fatto che si perde nella notte dei tempi. Ma non basta. E’ la peculiare forma della transumanza a costituire un ulteriore contributo per l’accumulazione di un sia pur magro reddito. Molti degli uomini abili al lavoro di questi piccoli villaggi erano soliti – anche se non facevano i pastori – accodarsi alle greggi in partenza per la Maremma, con lo scopo di andare a “prestare le braccia” per qualsiasi lavoro: da quelli qualificati, come il fabbro o il falegname, a quelli più generici, come il bracciante agricolo, il taglialegna, l’operaio a giornata. Ed è una realtà – questa dell’emigrazione stagionale – che le genti dei paesi di queste aree appenniniche hanno conosciuto fino alla metà del Novecento. I pastori che d’estate stazionavano negli alti bacini del Lamone, del Marzeno, del Montone, del Rabbi, del Bidente di Corniolo, della valle di San Godenzo e più in generale delle pendici centro-occidentali del Falterona, erano soliti andare a confluire sulla “Via maestra forlivese” (l’odierna SS 67). In tal caso, la intercettavano preferibilmente a valle di Dicomano, utilizzando una mulattiera – la via dei Cavallari – che partiva dalle Crocicchie e seguendo il crinale passava da M. Acuto, La Macia, Pian del Vaio, la Colla del Pretagnolo e la Maestà di Tizzano, per scendere poi al Passatoio e a Casa Pozzo, fino al fondovalle della Sieve (qui il convento di Sandetole offriva possibilità di pernotto). Oppure avevano la possibilità di raggiungere Rignano (punto obbligato, con gli uffici doganali) senza passare per il fondovalle della Sieve: si arrivava alla Consuma per una strada detta di Dogana che scendeva direttamente a Rignano, correndo alta sullo spartiacque tra Sieve e Casentino. Ed è quella che ripecorriamo con questo itinerario. Dopo Rignano, attraversate le coline del Chianti, i pastori scendevano a sud di Siena e – giunti a Costa al Pino – per guadagnare i pascoli di Maremma potevano decidere fra tre direttrici: la Via Maremmana di Sassofortino, la Via Consolare per Grosseto, la Via Maremmana di Chiusdino.

La Via del Mugello. Come per altre zone dell’Appennino, anche all’economia del Mugello la pastorizia ha dato un contribuito importante. Per la transumanza, va tenuto presente che qui la presenza a est e ad ovest delle dorsali della Consuma e della Calvana, ha fatto sì che la viabilità, nel tempo, si sia sviluppata soprattutto in senso meridiano. Dunque – tenendo presente che dopo le regolamentazioni del XV secolo si doveva attraversare l’Arno in tre punti obbligati, a Signa, a Firenze o a Rignano – i pastori provenienti dai pascoli di Montepiano, Castiglione de’ Pepoli, San Benedetto Val di Sambro, Monzuno, Fiorenzuola, partivano per la Maremma confluendo tutti a Barberino. Il percorso più occidentale era un’antica stradina pedonale proveniente da Montepiano, oggi ricalcata dalla SP36 (superava lo Stura al borghetto di Piangianni, già nei pressi di Barberino). Vi era poi un’altra strada pedonale che da Baragazza passava per Roncobilaccio e, seguendo la forra dove oggi passa l’autostrada, valicava tra M. Spicchio e M. Citerna. A Scarperia confluivano invece i pastori provenienti dalla conca di Firenzuola, che seguivano la strada del Giogo per poi prendere quella che è oggi la statale bolognese verso Firenze. Dai monti di Razzola e Casaglia, dalle pendici del Carzolano (valicando alla Colla di Casaglia) si scendeva invece a Borgo San Lorenzo. Da qui, fino agli inizi del Novecento, il viaggio proseguiva lungo un’antica strada di crinale ancor oggi esistente, che da Olmi (a sud della Sieve) risaliva il contrafforte tra la valle del Faltona e quella del Fistona. Questo percorso permetteva di raggiungere il valico delle Croci tra Mugello e la conca fiorentina. Noto come Vecchia maremmana delle croci, questo itienrario si ricongiungeva alla “vecchia faentina” in località Le Salaiole, e alla statale attuale presso l’oratorio di Polcanto (passando per Villa Martini, Monte Alto e Poggio Leccia).  Ma è al Passo dell’Ostale (antico nome del Passo della Futa) che confluivano le due maggiori vie doganali di quest’area: una – la “strada di Bologna” – proveniva da San Benedetto Val di Sambro e passava per Bruscoli; l’altra proveniva da Cavrenno e Pietramala, attraverso il Passo della Raticosa. C’era, peraltro, anche una terza via, una mulattiera che partiva da Monzuno e seguiva il crinale, attraverso Monte Bastione, la Piana degli Orsi e Poggio Castelluccio (lungo questo percorso – noto come “Via degli Dei” – vi sono ancora resti di selciato di epoca romana).  Come punto di partenza per questo viaggio prendiamo a riferimento proprio il Passo della Futa. Una volta superato l’Arno a Signa, il tragitto proseguiva toccando Montelupo Fiorentino, Tavernelle Val di Pesa, Barberino Val d’Elsa, Poggibonsi, Colle Val d’Elsa, Massa Marittima. Oltre questa località, entrati in Maremma i pastori si dislocavano nelle destinazioni finali, tra cui in primo luogo i pascoli di Nassa, Giancarico e Scarlino.

La Via Pistoiese. Ideale punto di partenza di questa via di transumanza è il Passo dei Tre Termini, anticamente detto Passo della Calanca e a lungo confine tra Stato Pontificio, Granducato di Toscana e Ducato di Modena. La scelta di questo passo non è casuale: se tutta l’alta valle della Verdiana (priva di centri abitati a causa dei ripidi versanti che non si prestano alle attività agricole) ha rappresentato fin da età remote un’area ideale di pascolo, la zona del passo è stata per secoli il principale punto di raccolta delle greggi in vista della partenza per la transumanza (greggi provenienti anche dai pascoli del versante emiliano). Ma non basta, per tutto il Medioevo il Passo dei Tre Termini costituì il punto di valico della principale via di collegamento tra versante emiliano e versante toscano. Per tale motivo, sebbene di fatto poco più di una mulattiera, fu a lungo oggetto di particolari attenzioni su ambo i versanti. In Età Moderna conobbe un certo declino, ma non fu mai abbandonata: oltre che dai pastori, divenne punto di riferimento per i contrabbandieri. Dal Passo il tratturo, ancora oggi usato dagli allevatori locali (non a caso è ancora conosciuto come “via dei pastori”), cala fino a Spignana. Da qui si scende ancora a S. Marcello Pistoiese e quindi a Campo Tizzoro e Pontepetri. Poi, toccando Piteccio, Pistoia e Poggio a Caiano si arriva a superare l’Arno a Signa. A questo punto i pastori per continuare il loro cammino utilizzavano preferibilmente la Salaiola fiorentina, quindi – risalito il Rimaggio e scollinato alle Quattro Strade – proseguivano toccando Ginestra Fiorentina, Montespertoli e Castelfiorentino. Ancora più a sud, i riferimenti erano Gambassi, le Saline di Volterra e Montingegnoli. Si arrivava in tal modo a Montemassi, ovvero all’ingresso dei pascoli della Dogana. I pastori si spandevano poi nelle aree circostanti, arrivando – alcuni – fino alla tenuta granducale della Badiola (Castiglione della Pescaia). Sistemate le capanne e riposte le masserizie, cominciava la dura vita della Maremma, fatta di molto lavoro, molta solitudine e di un regime alimentare piuttosto monotono, con l’acquacotta a fare da piatto di riferimento.

 La Via della Garfagnana. Le transumanze che avevano come luoghi di stazionamento estivo le alte valli di Lunigiana e Garfagnana – nonché gli opposti versanti emiliani della catena appenninica – si sono andate strutturando nel tempo attorno a due direttrici principali: la Via maestra litoranea e la Via della Garfagnana. Accanto a queste rimasero però attivi percorsi secondari che – in base ai punti di partenza – potevano presentare caratteristiche tali da farli preferire alle vie principali. Parliamo di tracciati di altura definitisi in epoche anteriori all’arrivo dei Romani e che continuarono a “a fare concorrenza” alla Claudia Nova (la consolare che strada che da Lucca, attraversando la Garfagnana e valicando al Passo di Tea, permetteva sia di raggiungere la Pianura padana, sia scendere al porto di Luni). Questa fu certo un’arteria importante sia a fini militari che commerciali, ma era lunga, dunque si cercava di “tagliarne” dei tratti. Il discorso riguarda anche la transumanza: solo negli ultimi secoli la strada di fondovalle prende il sopravvento: allorquando la necessità di ridurre i tempi del trasferimento surclassa ogni altro genere considerazione. Ma fin lì i pastori non disdegnarono gli antichi tratturi; parliamo di epoche in cui le transumanze duravano più a lungo, contemplando la possibilità di scendere a Piazza seguendo vallate secondarie e di sfruttare poi, per attraversare la media valle, percorsi di altura (sebbene con dislivelli maggiori).  Dalla Lunigiana scendevano a svernare nella piana del Magra pastori provenienti dalle alte valli del Taro e dell’Enza, ma una parte andava pure più a sud: passando per Viareggio, Torre del Lago e Migliarino, guadagnava la Maremma pisana. Questo però solo dopo che le paludi costiere vennero bonificate: prima era necessario sfruttare percorsi di altura, confluendo nella Valle del Serchio.  La quale – percorsa sia dai pastori garfagnini, che da quelli provenienti dal versante emiliano – nella sua direttrice principale toccava: Sillano, Piazza al Serchio, Castelnuovo, Monteperpoli, Gallicano, Borgo a Mozzano, Diecimo, Valdottavo, Domazzano, Sesto. A Monte S. Quirico si passava il Serchio, e Lucca era in vista. La continuazione poteva avvenire o via Ripafratta o per il colle di S. Maria del Giudice; in ogni caso si arrivava a Bagni di S. Giuliano, dove c’era una dogana. Per Pisa ormai mancava poco, e subito oltre ecco la piana dove le greggi si fermavano a svernare (già per il XII secolo esiste una documentazione che conferma la transumanza di ovini della Garfagnana nella piana di S. Rossore). C’erano tuttavia pastori che continuavano – tanto dalla Garfagnana che dalla Lunigiana – per la Maremma volterrana: sono attestate greggi che svernavano nelle piane alle foci del Cecina, del Cornia e del Pecora. E persino nella Maremma senese (in questi casi i pastori passavano il Serchio a Ponte a Moriano e poi l’Arno alla Calcinaia, proseguendo per Pontedera; qui, a seconda della destinazione, continuavano su varie direttrici). In considerazione di tali peculiarità, anche la nostra proposta si articola in modo diverso dal consueto; anzitutto prevedendo due itinerari distinti: uno diretto a esplorare l’ampio areale dei pascoli estivi, l’altro propriamente dedicato alla transumanza. Inoltre, nell’individuazione di quest’ultimo, si sono privilegiati tracciati secondari anziché la “via maestra” di fondovalle (quest’ultima è oggi una trafficata arteria stradale, ben poco adatta per la bici). 

 

b) A SVERNAR NEL LAZIO

Dal Montefeltro alla Maremma. I pastori che trascorrevano la stagione estiva sulle montagne del Montefeltro andavano a svernare in Maremma, in Tuscia e anche nella Campagna romana. Una delle zone più “frequentate” in termini di mete finali era quella di Tuscania, raggiunta seguendo una direttrice che – valicati gli Appennini a Bocca Trabaria o a Bocca Serriola – proseguiva avendo come riferimenti prima il Lago Trasimeno e poi il Lago di Bolsena.  Da Tuscania, i pastori si diramavano poi nei luoghi di destinazione finale. Nell’Alto Urbinate, pur essendo l’allevamento degli ovini un’antica tradizione, nel tempo però non si trasformò mai in grande impresa; si trattava di piccoli allevatori – proprietari al massimo di 2 o 3mila pecore – che si occupavano in prima persona del gregge e vivevano nei paesi della zona.  Questo tuttavia non impediva che al momento del viaggio – che durava dai 10 ai 12 giorni –  si formassero carovane numerose; in primo luogo c’era l’abitudine a riunirsi in più proprietari per affrontare il viaggio, e poi si aggregavano spesso persone del posto che andavano anch’essi a “svernare in Maremma” fornendo professionalità (fabbri, falegnami, ecc.) o semplicemente braccia da lavoro. Non per ultimo, c’era pure qualche grande masseria maremmana che veniva a trascorrere l’estate qui.  Nei ricordi di chi l’ha vissuta, la transumanza riemerge al tempo stesso come momento di tristezza (il distacco dai familiari) e sofferenza (la dura vita in Maremma), ma anche di speranza, nella misura in cui significava opportunità di rimpinguare i magri redditi. Tornando alle destinazioni finali, i pastori che scendevano dal Montefeltro viaggiavano insieme fino a Tuscania; qui si diramavano verso i poderi di arrivo, situati su un’areale piuttosto vasto: c’era chi si fermava in loco (tenute della Sugarella e del Formicone), chi andava verso Tarquinia e Montalto di Castro, chi puntava su Monteromano e Tolfa. C’era pure chi arrivava nelle campagne di Santa Severa e di Cerveteri. Mentre quelli che andavano verso la Maremma toscana (area della Marsiliana e di Polverosa) si distaccavano dalla grande carovana della transumanza un po’ prima, all’altezza di Latera. Noi, per concludere il nostro itinerario scegliamo l’area di Tarquinia, dove le tenute di arrivo erano quelle di Castelghezzo, Poggio Martino e Farnesiana. 

La Via di Orvieto. Nel tratto di Appennino Umbro-marchigiano compresa orientativamente tra il Monte Nerone e le montagne sopra Gualdo Tadino, parole come pastorizia e transumanza hanno un sapore antico; per secoli qui hanno pascolato tanto le pecore di grandi masserie della Maremma, quanto le greggi di piccoli allevatori locali. Perché ogni famiglia manteneva qualche pecora; di solito le affidava a un pastore del posto che le portava al pascolo la mattina e rientrava la sera. A Costacciaro, per fare un esempio, nel 1886 si contavano 194 famiglie e 600 pecore. E chi ha abitato qui fino agli Anni Sessanta, ricorda il gregge muoversi di prima mattina, e al bivio di S. Rocco prendere a destra o a sinistra, a seconda del fischio del pastore.  Ma non basta; allevamento delle pecore ha significato anche altro in queste comunità; ad esempio fare il formaggio radunandosi in più famiglie. Si faceva il preso con stomaco di agnello essiccato (triturato ed impastato con olio d’oliva, prezzemolo, aglio), e si produceva una forma al giorno. Il latte veniva scaldato su un caldaio detto stagnato (perché all’interno era igienizzato con uno strato di stagno), e quando coagulava veniva raccolto, messo in un contenitore (il cerchio) e spremuto per far uscire il siero (che poi si rimetteva a bollire per fare la ricotta).  Oppure ha significato specializzarsi nella costruzione di stacci e cerchi; gli abitanti di Costacciaro sono stati maestri fin dal Medioevo: usavano la corteccia di faggio – resistente e flessibile – per confezionare cerchi regolabili con lo spago.  Non a caso, il primo nome di Costacciaro fu “Colle degli stacci” (Collestacciarum), e tale produzione fu così fiorente da consentire ad alcuni artigiani di aprire un fondaco nel porto di Genova, per vendere stacci e cerchi. Questa via di transumanza sfruttava l’antica consolare Flaminia fino a Bevagna e poi ancora oltre, lambendo i Martani e toccando quindi Massa Martana. Saliva poi a Todi per entrare nel bacino del medio Tevere, dove raggiungeva Orvieto. La città umbra era, se così si può dire, il “perno” del tracciato, perché qui giunte, c’erano masserie che andavano a svernare nelle maremme attorno a Manciano (proseguendo in direzione di Bolsena), mentre altre raggiungevano la Tuscia, con destinazioni finali le campagne di Viterbo, di Tuscania, Monteromano, Tolfa. E altre ancora arrivavano attorno a Cerveteri.  Proprio quest’ultima località ci prefiggiamo come meta finale del nostro itinerario in bici.

Tra i Monti della Tolfa e la Tuscia. Nella zona considerata da questo itinerario – tra le alture della Tolfa e le piane della Maremma laziale – l’allevamento del bestiame è stato molto a lungo una delle più importanti attività economiche (se non la principale) e ancora oggi il suo ruolo nel sistema produttivo locale non è del tutto irrilevante. In effetti, già semplicemente al primo sguardo è facile notare come a dare l’impronta prevalente al paesaggio sia stato il pascolo brado di pecore, capre, vacche, cavalli; attività che in quest’area si pratica da quasi tre millenni. E’ però in secoli tutto sommato recenti – tra il XV e il XIX – che si assiste alla “istituzionalizzazione” di quella che già era una vocazione naturale, allorché vastissime superfici diventano pascoli di dogana, organizzati e gestiti dallo Stato Pontificio per consentire la transumanza invernale delle greggi provenienti dall’Appennino Umbro-Marchigiano. Dunque, in un certo senso quest’itinerario – che intercetta e ripercorre le antiche strade di dogana – è da considerarsi più un percorso ad anello nelle aree di pascolo invernali che una “via di transumanza”. Ma non va dimenticato che c’erano anche greggi che scendevano al piano dai Monti della Tolfa, perché queste alture – a prima vista niente più che colline – in inverno sono battute dalla tramontana e frequentemente innevate. Insomma, a dispetto dell’altitudine, sono interessate da un clima effettivamente montano. Le antiche strade di dogana (alcune conservano ancora il nome originario) sono probabilmente la testimonianza più palese, l’eredità materiale più evidente delle forme di gestione fiscale e dell’organizzazione dei flussi pastorali promossi dallo Stato Pontificio in quest’area, che all’epoca si chiamava Provincia del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia. Non sono però solo le strade ad evocare la transumanza: sparse sul territorio troviamo altre emergenze, sebbene per lo più ormai ridotte a ruderi semi-nascosti nella vegetazione. A cominciare dalle grotte scavate negli speroni di tufo millenni or sono dai pastori villanoviani ed etruschi, o ai resti di epoca romana e medievale riutilizzati come ricovero di greggi. Ma non basta: ci sono anche musei, centri di documentazione, rievocazioni, feste tradizionali, specialità gastronomiche dedicate alla pastorizia e ai prodotti dell’allevamento. Un importante e variegato patrimonio di cultura immateriale (oggi frequentemente indicato, con anglicismo alla moda, come intangible cultural heritage) che dopo decenni di abbandono, se non di disprezzo, negli ultimi tempi si sta riscoprendo e valorizzando.

La Via della Spina. Per secoli nelle aree montane del maceratese la pastorizia è stata fra le attività economiche principali. La presenza di ampi declivi prativi e di valichi a quote non elevate, così come la persistenza degli usi civici (tra cui il diritto di far pascolare le pecore anche in campi di proprietà privata, dopo il raccolto), hanno facilitato l’allevamento del bestiame allo stato brado. In questa prospettiva, i piani di Colfiorito – insieme al Vissano e ai Piani di Castelluccio – hanno rappresentato da sempre una delle aree di maggior concentrazione delle greggi. Non a caso le tracce, anche antiche, della pastorizia e della transumanza in quest’area sono frequenti.  A partire dall’Età Moderna, la pastorizia era organizzata per masserie, vale a dire aziende che potevano arrivare a comprendere anche quaranta persone. Nel caso di grandi proprietà nobiliari, finivano per essere dei piccoli villaggi, con strutture in muratura, dove risiedevano sia le famiglie dei pastori transumanti, sia quei pochi agricoltori che restavano tutto l’anno in montagna. Ma negli altri casi – vale a dire gli allevatori più piccoli – si trattava di insediamenti temporanei, costruiti con pietre e legname. Questi pastori poi, per le esigenze quotidiane sfruttavano la vicina Colfiorito (che ha mantenuto fino ai giorni nostri una vocazione commerciale, accanto alle attività di lavorazione del latte). Al momento della transumanza, i pastori si muovevano per raggiungere i pascoli della Tuscia o della Maremma utilizzando un itinerario – la Via della Spina – conosciuto fin da epoche protostoriche. Giunti nei pressi di Spoleto, per guadagnare il ramo della Flaminia più antico – passante per Carsulae – sfruttavano la Via delle Pecore (attraversando i Martani all’altezza di Macerino) o una variante che – sempre seguendo antichi tracciati – valicava i Martani al Passo di Acqua Canale, per scendere poi su S. Maria di Pantano. Una volta sulla consolare, i pastori potevano proseguire in direzione di Narni o sfruttare un suo diverticolo per guadagnare il colle di Todi (inizialmente detto Via Petrosa, tale diverticolo ebbe poi altri appellativi: Via Romana, Via dei Mulattieri, Via delle Sette Valli). La scelta tra tali diverse possibilità dipendeva dai pascoli finali: se situati nella Campagna Romana, oppure in Tuscia o, ancora, in Maremma (attorno a Manciano).

La Via di S. Angelo. Rispetto alla dorsale appenninica Umbro-marchigiana, i Monti Sibillini sono stati per secoli la più grande area di pascolo estivo del bestiame transumante. Le loro vaste distese prative (in primis l’altopiano di Castelluccio di Norcia) hanno offerto un sicuro punto di riferimento per pastori ed allevatori.  Come per Colfiorito, l’economia di queste aree di montagna fino a tempi recenti si è basata proprio sull’allevamento del bestiame, oltre che sul taglio del bosco e sul carbone.  E ancora oggi, seppure in misura molto più ridotta, una parte di questi spazi viene sfruttata per lo stazionamento estivo di pecore, vacche e cavalli. Per dare un’idea delle dimensioni che aveva l’allevamento transumante, basterà ricordare che nel XVI secolo oltre 600mila capi di bestiame, per lo più ovino, scendevano ogni autunno dai versanti dei Sibillini per raggiungere le aree di pascolo invernale del Lazio. Per poi ritornarvi in tarda primavera.  Già questo dato rende bene l’idea dell’importanza che tanto l’allevamento del bestiame in sé e per sé, quanto le attività ad esso collegate – a cominciare dalla lavorazione del latte – hanno avuto per le genti della montagna appenninica. Ripercorriamo allora due tra i principali itinerari della transumanza tra i Sibillini e i pascoli invernali, caratterizzati dall’utilizzo di antiche strade. In questo caso, assumendo come luogo di partenza la parte settentrionale dei Sibillini, sfrutteremo un itinerario di transumanza veramente antico, già usato – secoli prima dell’avvento dei Romani – dai pastori delle popolazioni Umbre e Picene, che prevedeva di attraversare il valico di Colfiorito e scendere lungo la Via Plestia prima di raggiungere la pian di Foligno, da cui si proseguiva verso i Martani e oltre, come accadeva per chi scendeva dalla Via della Spina.  Mete finali i pascoli nell’area attorno al Lago di Bracciano.

Dai Sibillini alla Campagna romana. Rispetto alla dorsale appenninica Umbro-marchigiana, i Monti Sibillini sono stati – per secoli – la più grande area di pascolo estivo del bestiame transumante. Le loro vaste distese prative (in primis l’altopiano di Castelluccio di Norcia) hanno offerto un sicuro punto di riferimento per pastori ed allevatori. Come per Colfiorito, l’economia di queste aree di montagna fino a tempi recenti si è basata proprio sull’allevamento del bestiame, oltre che sul taglio del bosco e sul carbone. E ancora oggi, seppure in misura molto più ridotta, una parte di questi spazi viene sfruttata per lo stazionamento estivo di pecore, vacche e cavalli. Per dare un’idea delle dimensioni che aveva l’allevamento transumante, basterà ricordare che nel XVI secolo oltre 600mila capi di bestiame, per lo più ovino, scendevano ogni autunno dai versanti dei Sibillini per raggiungere le aree di pascolo invernale del Lazio. Per poi ritornarvi in tarda primavera.  Già questo dato rende bene l’idea dell’importanza che tanto l’allevamento del bestiame in sé e per sé, quanto le attività ad esso collegate (a cominciare dalla lavorazione del latte) hanno avuto per le genti della montagna appenninica. Ripercorriamo allora, nei due fascicoli dedicati, i due principali itinerari della transumanza tra i Sibillini e pascoli invernali, caratterizzati dall’utilizzo di strade antichissime, sistematizzate in epoca romana. Qui assumiamo come area di partenza la parte meridionale dei Sibillini, e più precisamente l’altopiano di Castelluccio di Norcia. I pastori che scendevano da qui avevano come mete finali delle tenute che potevano trovarsi nella Tuscia viterbese, nella zona attorno al Lago di Bracciano o, ancora più a sud, nella campagna a nord di Roma. In quest’ultimo caso, una volta raggiunta Civita Castellana, le mete erano l’Agro Falisco, la zona di Gallese, la Valle del Treia o la zona di Veio (lungo il Torrente Cremera). Noi ci concentreremo su queste ultime destinazioni.

La Via di Cardito. Per Amatrice e le “ville” circostanti l’allevamento del bestiame è stato a lungo primaria fonte di ricchezza. E allevamento del bestiame ha significato transumanza: una pratica antica da queste parti, come testimoniano gli stessi registri dell’Abbazia di Farfa. Dove si può leggere che già alla metà dell’VIII secolo erano ben 5mila i capi di ovini di proprietà dei monaci condotti a trascorrere l’estate sui monti dell’Alto Velino. E che tale “invasione” produceva conflitti con i pastori locali, possessori anch’essi di greggi consistenti. Peraltro, grazie all’allevamento delle pecore, ad Amatrice sul finire del Medioevo un ruolo importante vennero ad assumere la lana e la sua lavorazione. Con una produzione tale da consentire a questo piccolo comune – nel corso del Quattrocento – di fare concorrenza nelle esportazioni dei pannilana a centri ben più grandi e rinomati.  Per ciò che concerne la transumanza, i pastori che trascorrevano l’estate sui pascoli del versante occidentale dei Monti della Laga – portavano i loro armenti a svernare in varie località della Campagna Romana, seguendo un itinerario che era “consuetudinario” già nell’Alto Medioevo. Divenne poi noto, a partire dall’Età Moderna, come Via di Cardito, perché questa località, alle porte di Rieti, fu per secoli luogo di sosta “obbligato” per i pastori, essendovi nei pressi il confine tra Regno delle Due Sicilie e Stato della Chiesa, e dunque le dogane. In linea di massima l’itinerario era orientato dalla vecchia Salaria, sebbene se ne discostasse in più punti, prevedendo scorciatoie o percorsi alternativi. Inoltre, a causa delle cattive condizioni del segmento della consolare che attraversa le Gole del Velino, questo tratto per lungo tempo fu evitato dai transumanti, che preferivano superare i Monti Reatini al valico di Cima di Monte (sfruttando un’altra antica via che collegava Leonessa e Rieti).  Quindi, discese le valli della Sabina, nella parte finale il punto di riferimento era Passo Corese; da qui i proprietari delle greggi si separavano, per raggiungere i pascoli invernali in varie località attorno a Roma.

La Via dell’Aniene. Questo itinerario prende in considerazione i pascoli estivi sulle montagne del Cicolano, frequentate dai pastori già in epoca pre-romana.  Il Salto-Cicolano – pur essendo un’aspra realtà di montagna – è stato per secoli anche territorio di passaggio, dunque luogo di contatti e di scambi. E in tal senso il fenomeno della pastorizia transumante ha svolto un ruolo di primo piano, rispetto tanto all’economia quanto alla cultura della gente del posto. Dalla Valle del Salto l’itinerario prosegue verso la Valle del Turano, per immettersi – sfruttando l’antica consolare Tiburtina-Valeria – lungo la Valle dell’Aniene; costeggiando il fiume, le greggi delle masserie (che appartenevano a poche famiglie benestanti), raggiungevano Tivoli, da cui continuavano avendo due areali di arrivo: i pascoli invernali della Campagna Romana (in particolare la zona della Caffarella), o l’Agro Pontino, che raggiungevano percorrendo una direttrice di marcia di origini preistoriche, la “Via Doganale”, che li conduceva fino ai pascoli di Cisterna di Latina.  È quasi superfluo aggiungere che “la Via delle Aniene” nella sua parte centrale era percorsa da pastori provenienti anche da altre aree appenniniche, oltre al Cicolano, che la seguivano fino a Tivoli; vi erano greggi che arrivavano addirittura dai versanti meridionali della Laga (ad esempio dalla zona del Lago di Campotosto), e poi dalla Marsica, dal versante settentrionale dei Simbruini, dai Monti Carseolani. Una volta a Tivoli, a seconda delle destinazioni finali, si potevano osservare diverse diramazioni; oltre alle due principali sopra indicate, vi erano ad esempio pastori che si recavano nella zona compresa tra Genzano e Aprilia e in tal caso anziché scendere all’Agro Pontino per Palestrina, attraversavano l’area dei Castelli Romani.  

La Via di Arcinazzo. Con questo itinerario si ripercorre una via di transumanza che, scendendo dai Monti Simbruini, portava i pastori a svernare nelle campagne di Anzio.  Dal punto di partenza, prima di iniziare la discesa verso la costa tirrenica, è possibile effettuare escursioni nelle aree montuose dei dintorni, percorrendo antichi tratturi estivi che conservano ancora tracce consistenti della vita pastorale.   A Vallepietra, in effetti, ci sono diversi sentieri che – salendo verso le pendici dei monti – propongono all’escursionista resti materiali della “civiltà dei pastori”. Tra questi, merita sicuramente una segnalazione quello che porta al Santuario della Santissima Trinità, sito di antico culto popolare ancora oggi meta di pellegrinaggio: è collocato proprio al punto di convergenza di antichi percorsi pastorali. In quanto alle località di arrivo, i pastori che stazionavano in estate sui Simbruini scendevano per lo più nell’Agro Pontino; tuttavia c’era anche ci si dirigeva verso gli ampi pascoli della Caffarella; dunque esploreremo fino in fondo entrambe le direzioni. 

Le Vie dei Lepini. Sui Lepini la transumanza ha assunto caratteri misti: vi ritroviamo quella breve (dai paesi della fascia pedemontana ai pascoli di altura, e viceversa), quella lunga (con greggi che in inverno arrivavano nell’Agro Pontino) e quella “di passaggio”, perché i Lepini sono stati anche zona di transito di greggi che dalla Marsica scendevano al Tirreno. Nell’individuazione dell’itinerario, tuttavia, si è tenuto conto pure di altri aspetti; anzitutto il fatto che su questi monti i luoghi che meritano una visita sono molti (alcuni perché conservano tracce importanti della pastorizia, altri perché sono ambienti ancora oggi frequentati dai pastori). Vi è poi da considerare la stretta connessione fra la plurisecolare attività dell’allevamento e i piccoli paesi dei Lepini; una connessione che significa storia e identità, ma anche prospettive di sviluppo. Non a caso, nello spazio di pochi chilometri sono nate realtà quali un museo etnografico, un museo della pastorizia, e una manifestazione che rievoca la transumanza. Si è scelto quindi di definire un percorso “serpeggiante” (con configurazione ad anello) all’interno di tale ricca realtà; mirando a toccare i punti più interessanti e non trascurando possibilità di proseguimento a piedi, per effettuare escursioni alle quote più elevate. È pure il caso di ricordare che su queste montagne la transumanza – a causa della scarsità di acqua – ha visto talvolta invertite le stagioni delle migrazioni. In inverno il terreno, date le quote modeste, non resta a lungo coperto di neve: anche in questa stagione gli animali trovano del nutrimento. Inoltre in autunno, inverno e primavera, l’acqua si trova con più facilità, mentre nei mesi estivi di acqua ce n’è poca. Ecco allora che i pastori, talvolta, scendevano verso il piano in estate, per far pascolare le pecore sui terreni in cui si era mietuto (questo accadeva, ovviamente, solo se vi era possibilità di pascolo nelle vicinanze della fascia pedemontana; altrimenti si procedeva come di consueto: d’estate in montagna e d’inverno in pianura).  Infine, una nota sui luoghi di arrivo: l’Agro Pontino era largamente frequentato proprio dai pastori dei Lepini: da Bassiano (si concentravano a S. Donato), da Sermoneta, da Sezze, da Norma, da Priverno, da Maenza, da Roccagorga. Ma c’erano anche pastori del Frusinate (provenienti da Filettino, Trevi, Veroli, Carpineto, Segni, Guarcino, Gorga, Alatri).  Dai pascoli estivi dell’alta Val Comino questi pastori scendevano su Atina e poi – toccati il Castello di Vicalvi, Sora e Isola Liri, costeggiavano il fiume in direzione Fontana Liri (o procedevano verso la fontana ranna lungo la Via Incoronata, in direzione Frosinone). Fino alle destinazioni finali. Una volta giunti a destinazione, si insediavano nelle zone disboscate meno acquitrinose, dove costruivano capanne secondo le tecniche dei luoghi d’origine; ecco allora sia le capanne piccole e con tetto a punta (dei ciociari), sia quelle rettangolari, più ampie e terminanti a tronco di cono (dei pastori lepini). Stando al primo censimento dello Stato Pontificio, risalente al 1656, all’epoca l’Agro Pontino contava sui 17mila abitanti, e quasi tutti erano dediti alla pastorizia (con una densità media di15 abitanti per km quadrato).

Da Filettino a Ninfa. L’itinerario dedicato ai Lepini ci ha consentito sia di approfondire i diversi aspetti assunti dalla transumanza in quest’area: breve (dai paesi della fascia pedemontana ai pascoli di altura, e viceversa), lunga (con greggi che in inverno arrivavano nell’Agro Pontino) e “di passaggio” (i Lepini sono stati anche zona di transito di greggi che dalla Marsica scendevano al Tirreno).  Con questo itinerario, invece, di fatto analizziamo un caso che abbina la seconda e la terza possibilità, ossia una transumanza che ha come destinazione dei pascoli invernali la piana pontina, ma che in pari tempo vede i Lepini come area di transito (essendo i luoghi di stazionamento estivo l’aerea sud-occidentale dei Monti Simbruini). Il nostro punto di partenza, in effetti, si situa all’interno di quello che oggi è il Parco dei Monti Simbruini, nell’Alta valle dell’Aniene. Il nostro punto di arrivo, invece, è rappresentato da un vasto tenimento che per tutta l’Età Moderna rimase sotto il controllo della potente famiglia Caetani. Ma costituì un riferimento per il pascolo invernale già in epoca protostorica, e a tal riguardo, due sono gli aspetti di maggior interesse (che approfondiremo nel testo): i cambiamenti della struttura insediativa, pur nella sostanziale continuità delle modalità di sfruttamento dell’area; i diversi tratturi che i transumanti hanno percorso per raggiungerla (con riferimento soprattutto alla parte finale, ovvero al tratto Montelanico – Ninfa).    

Dagli Ernici al Circeo. L’area di partenza qui è quella dei Monti Ernici, che è consigliabile raggiungere – specie se si sceglie l’opzione treno+bici – con un avvicinamento che contempli il passaggio per Anagni, antica capitale della Confederazione degli Ernici.  Fondata oltre 3mila anni fa , è oggi tra le maggiori città d’arte della Ciociaria,  Una volta guadagnate le zone dei pascoli estivi, si ripercorre la transumanza dei pastori che scendevano a svernare nell’area del Circeo, seguendo prima la Valle del Cosa e poi quella dell’Amaseno, fino all’Abbazia di Fossanova. L’arrivo, dunque, è nel territorio del Parco Nazionale del Circeo; qui per una visita dei luoghi con l’occhio rivolto al tema della transumanza, va segnalato un itinerario che consente di toccare al tempo stesso alcuni dei siti di maggior interesse all’interno del Parco ed anche dei vicini Monti Ausoni, con particolare riferimento alla zona di Campo Soriano.

Dalla Marsica alla valle dell’Amaseno. Con questo viaggio ripercorriamo un altro antico itinerario di transumanza delle greggi che scendevano dall’Appennino alla costa tirrenica: quello compiuto dai pastori che dalla Marsica – sfruttando la Val Comino e la vallata del Liri prima, quelle del Sacco e dell’Amaseno poi – portavano le pecore a svernare nelle campagne comprese tra Sezze, Priverno e Sonnino, oppure nell’antica Selva di Terracina. Come ideale punto di arrivo del viaggio, individueremo qui l’Abbazia di Fossanova, ma non senza aver considerato una variante che – correndo a ridosso del confine tra Stato Pontificio e Regno delle Due Sicilie – portava i pastori agli stazzi dei Monti Ausoni. Percorreremo così antichi tratturi con cui raggiungeremo remoti insediamenti pastorali (peraltro in parte ancora oggi attivi).   Si è citata la Selva di Terracina, merita di ricordare che fin agli anni della bonifica – iniziata nel 1927 –  si estendeva per ben 11mila ettari, inserendosi in un panorama di natura incontaminata ancor più ampio: gli 80mila ettari della foresta planiziale dell’Agro Pontino, comprendente laghi costieri, grandi dune, paludi, boschi, radure. Molto ostili per gli uomini in estate a causa della malaria, ma bastevolmente abitabili in inverno, e dunque ideali per offrire un pascolo al bestiame transumante.  Infine: in apertura abbiamo detto che nelle località di stazionamento invernale che consideriamo con questo itinerario arrivavano mandrie che in estate pascolavano nella Marsica; ebbene, va anzitutto specificato che l’area ricompresa sotto tale denominazione è piuttosto ampia, e non tutte le greggi “marsicane” puntavano all’Agro pontino (quelle che frequentavano i versanti orientali prendevano la via delle Puglie). Inoltre la località di Settefrati (da cui prendiamo le mosse) è collocata tutto sommato ai margini della Marsica: non va quindi dimenticato che arrivava sugli Ausoni pure bestiame sistemato, in estate, più a nord. E ancora oggi ci sono allevatori di bovini che portano le vacche dal M. delle Fate (e dal M. Calvo) alle montagne situate tra Tagliacozzo e Cappadocia. La loro transumanza dura tra i 5 e i 6 giorni; a scendere toccano Vallepietra (valico della SS. Trinità), Arcinazzo, Fiuggi e poi – attraversata l’autostrada nel comune di Anagni – valicano i Lepini alla Paolmbara. Arrivano così ad Amaseno, dopo aver camminato lungo l’omonimo fiume. Infine, passando per Cerreto raggiungono i già citati siti degli Ausoni.

Dai Monti della Meta alla Pina d’Itri. Con questo itinerario ripercorriamo una direttrice di transito delle mandrie che scendevano al Tirreno provenendo dai Monti della Meta; almeno una parte del bestiame che in estate stazionava sul versante della Meta che guarda la Val Comino, poi nel periodo invernale si spostava a sfruttare la Piana pontina, o le zone più riparate di Ausoni ed Aurunci. In tal senso, è opportuno precisare che sebbene l’area degli Aurunci – almeno fino all’Unità – non ha fatto parte dei pascoli invernali presi a riferimento per gli altri itinerari (in effetti, questi rilievi a ridosso del mare fino al 1860 non hanno fatto parte dello Stato Pontificio, bensì del Regno delle Due Sicilie) tuttavia vi è più di una ragione per “assimilare” questo itinerario agli altri già descritti.   La prima è che, se osservata in un arco cronologico di lungo periodo, la collocazione all’interno del Regno di Napoli (poi delle Due Sicilie) non è molto rilevante; se non altro perché stiamo parlando di una fascia di territorio di confine dove la giurisdizione “statale” è stata per secoli molto incerta. La seconda attiene invece alle caratteristiche effettivamente assunte dalla transumanza: su queste alture l’allevamento ovino e caprino (ma anche bovino e suino) è un’attività plurisecolare praticata con metodi ed organizzazione “transumanti” simili a quelle dei pastori che scendevano nell’Agro Pontino (o anche più a nord).   Se ciò non bastasse, aggiungiamo che gli Aurunci sono uno dei pochi posti, in Italia, in cui ritroviamo ancora significativi elementi di persistenza della pastorizia tradizionale, a cominciare dai luoghi che – oggi come secoli fa – si configurano quale immutato teatro delle quotidiane gesta dei pastori.  Situazioni e luoghi di grande interesse dunque, nell’ottica della ricerca dei resti dell’antica cultura pastorale; ci sembrano buone e sufficienti ragioni per ripercorrere anche questo itinerario.